In questi giorni abbiamo giocato a guardie e ladri con il tifone Khanun, riuscendo sempre a farla franca.
Col tifone Lan, il settimo di questa stagione, è andata in un altro modo e ci ha presi in pieno, costringendoci a rimanere al chiuso.
A chi era ad Okinawa, due settimane fa, era andata peggio: case distrutte, molti sfollati, tantissima gente senza acqua, energia elettrica, cibo.
Qui, da ieri, ci limitiamo ad osservare un muro di acqua traslare in orizzontale, sospinto da venti caldi e fortissimi.
Abbiamo così potuto vedere all’opera tutta la procedura di qualsiasi realtà -trasporti, centri commerciali, istituzioni pubbliche, aziende, comuni cittadini in casi come questo.
Fa impressione vedere l’attività frenetica, che è la caratteristica principale delle metropoli giapponesi, fermarsi totalmente.
I treni proiettile (shinkansen) sono i primi a fermarsi, poi, subito dopo, tutta la rete di trasporti. Gli esercizi commerciali rimangono chiusi, salvo pochissimi konbini, che a orario ridotto consentono un rifornimento di cibo e acqua.
Le forze dell’ordine vigilano sui varchi chiusi su passaggi sopraelevati, sottopassi, scale mobili e su tutti i varchi di accesso ai binari e ai piazzali dei bus.
Anche e soprattutto questa è efficienza. Nel volgere di pochi giorni da queste parti hanno saputo gestire un sisma di magnitudo 5,8 e un tifone e non si hanno notizie di vittime.
Le città in Giappone sono un inno al capitalismo, come e forse più di tante città occidentali.
Tuttavia, di fronte al rischio sistemico, collettivamente qua si sceglie di fare un passo indietro e di preservare persone e infrastrutture.
Del resto, come avevamo già avuto modo di notare, qui il rischio è davvero quotidiano. Terremoti, eruzioni e tsunami non sono delle possibilità: sono eventi concreti cui ci si allena a fronteggiare.
E’ una lezione, questa innaturale stasi, che vale più delle tante sessioni di gestione del rischio svolte nella professione: per fronteggiare i rischi, anche alti, che la vita quotidiana esige di contemplare per condurci ad altri traguardi, occorre avere il coraggio di accettare il limite e di saper fare uno, dieci, cento passi indietro.
Non c’entra niente -o forse sì però il pensiero in queste ore è andato anche a certi momenti vissuti sui tatami in giro per il mondo.
A quel modo di praticare -e in qualche modo di esigere la pratica- fatto di gesti che vanno oltre la capacità fisica e tecnica reale del singolo praticante e che terminano, inevitabilmente, in sgradevoli, evitabilissimi infortuni.
La pratica che abbiamo visto sui tatami giapponesi è specchio integrale di tutto ciò che, fuori dal Dojo, accade. Intensa, totale, talvolta robotica, ricca di principi e depurata da troppe speculazioni ma costantemente attenta a offrire al gruppo una cornice fatta di limiti che non si possono né devono superare.
Osservare un mondo veloce nel suo aspetto statico è stato quindi un dono inaspettato che porteremo nel nostro quotidiano.